venerdì 23 novembre 2012

Credo che metterò in discussione il termine 'disabile'. Mi è stato gentilmente suggerito da un'amica che era sobbalzata alla parola handicappato e ho preso ad utilizzarla in nome del politically correct. Però secondo me è una parola che non funziona.
Lavoro presso due strutture diverse, una per ragazzi severamente handicappati e una per ragazzi autistici o con la sindrome di Down che conducono una vita abbastanza indipendente. Ieri sera ero alla casa di accoglienza con i ragazzi autistici e stando a tavola tutti insieme mi sono resa conto che non hanno niente di dis-abile. Anzi, sono parecchio abili. Lavorano, si prendono cura di sé, cucinano. Stanno a tavola tutti insieme come una famiglia molto più funzionale di tante altre 'normali'. Si raccontano la giornata, si prendono per i fondelli uno con l'altro, chiacchierano. Poi vanno a farsi una bella doccia e si guardano tutti insieme l'unica telenovela olandese che va avanti imperterrita da più di vent'anni e inchioda milioni di sudditi della regina davanti alla tv tutte le sere. E' ovvio che dietro a un tale idillio di collaborazione c'è un lavoro di anni. Però alla fine tutto vedo tranne che gente incapace o, appunto, disabile.
Non mi piace manco il 'diversamente abile'. I ragazzi danno un nome preciso alla loro diversità, usano il termine medico. Però son nomi generalmente sconosciuti a noi comuni mortali. Mah, mi farò venire in mente qualche alternativa.

lunedì 5 novembre 2012

Quando si dice il caldo supporto della famiglia.

Racconto alle ragazze del mio entusiasmo per il possibile nuovo lavoro, sabato vado a fare una prova presso un centro per disabili qui vicino. La prima reazione di Chiara è stata: "Ah, finalmente vai a lavorare, così posso tornare a casa da scuola da sola". Prego? Ti abbiamo dato le chiavi di casa il secondo giorno di scuola, puoi tornare da sola quando vuoi, just say the word. "....Bè, questa settimana ancora mi porti e mi vieni a prendere, poi magari da quella dopo ci penso". Allora sono io che ti tarpo le ali o sei tu che rompi??

Martine è stata ancora più bella. Beata come un'oca mi ha detto: "Bè, sarebbe bello. Trovi questo lavoretto e guadagni qualcosina".

Lavoretto. Qualcosina. In pratica mia figlia quattordicenne ha fatto pat pat al lavoro dei miei sogni.

giovedì 1 novembre 2012

Qualcuno ha caricato su Facebook una vecchia intervista al fratello musicista, che io ho sentito oggi per la prima volta. A parte l'ovvio misto di stupore e ammirazione al trovare il fratello in questione che disquisisce di cose astruse rendendole semplici anche ai più duri di comprendonio (vedi sotto la voce: sorella), sentirlo parlare ha quagliato pensieri che mi ronzavano per la testa da giorni senza trovare le parole per uscire. A un certo punto ha citato Brecht che dice "Sto lavorando duro per preparare il mio prossimo errore". Eccomi qua.
Da quando sono arrivata è stato importante trovare lavoro, ma il cercarlo mi ha costretto a farmi parecchie domande. Cosa fare? Qualcosa "al mio livello"? Vantaggio: un buono stipendio. Svantaggio: meno tempo per la famiglia e ritorno ad uno stress conosciuto fin troppo bene in passato. Qualcosa di più banale e part-time? A parte l'annientamento della materia grigia, ho trovato solo dinieghi perché "potevo fare molto di più". Far tesoro delle esperienze passate e metterle a frutto partendo con una nuova avventura in proprio? Certamente avere un'attività propria qui in Olanda è più semplice che in Italia, ma senza un'idea di base 'ndo vado.
Piano piano dalla lussuosa nebbia delle troppe possibilità si è fatta strada la mia vocina interiore a darmi sempre la stessa risposta: tu vuoi tornare a lavorare con i disabili. L'ho fatto tanti anni fa e ho amato questo lavoro con una ferocia che sinceramente non merita. Ai tempi una collega mi aveva detto: "Tu che hai studiato, vai a fare qualcos'altro. Questo è un non-lavoro." In effetti è così. Non c'è nulla di nobile o romantico ad occuparsi di disabili. Capivo la collega, così come capivo il marito parecchio allibito all'idea che rassettare una casa non mia o aiutare gente a farsi la doccia potesse darmi soddisfazione. Ma la realtà è una sola: mi piace sul serio.
Allora si è fatta strada questa idea folle di ricominciare dallo zero più assoluto alla giovane età di 45 anni. Tornare a fare un lavoro umile, che non differisce molto da quello che già fai a casa tua, e piano piano rimettersi a studiare e crescere in una professione nuova.
L'insistenza della vocina mi ha ovviamente portato a chiedermi perché ci tengo tanto a fare un lavoro simile. La risposta che mi sono data è: perché mi assomiglia. Lavorare in una struttura per disabili è come stare a casa propria. Lucia al lavoro non è diversa da quella "vera". Posso girare in jeans e maglietta invece di "vestirmi da cliente" come ho fatto per anni. Non passo ore dietro a un computer. Uso le mani per lavorare. Non devo badare alla diplomazia o a strategie di carriera, anzi, lavorerei in un ambiente piuttosto ruspante. Nessuna differenza tra quello che sono e quello che faccio.
La mia decrescita felice.